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L’amministrazione Trump vuole negare il visto ai fact-checker stranieri e a chi si occupa di sicurezza online

Definita una mossa per bloccare “chi censura”, in realtà è una decisione pericolosa e insensata con basi legali fragili

10 dicembre 2025
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Secondo Reuters, il personale consolare statunitense ha ricevuto istruzioni di esaminare e respingere le richieste di visto H-1B inoltrate da chi è «responsabile o complice di censura o tentativi di censura di espressioni protette negli Stati Uniti».

Sembra perfettamente ragionevole, finché non si considera che – secondo il memo visionato da Reuters – la politica si applica a candidati che «hanno lavorato in aree che includono attività come misinformazione, disinformazione, moderazione dei contenuti, fact-checking, compliance e sicurezza online, tra le altre».

Chiariamo: chi scrive questo articolo è una persona che vive negli Stati Uniti, nata all’estero, ex fact-checker e professionista della trust & safety. Ho un interesse personale in questa vicenda. Ma vale la pena essere molto chiari su ciò che sta accadendo.

Per prima cosa, l’aspetto legale.

Carrie DeCell, senior staff attorney e consulente legislativa al Knight First Amendment Institute della Columbia University, ha detto a The Indicator che «le persone che studiano la misinformazione e lavorano nei team di moderazione dei contenuti non si occupano di “censura”: svolgono attività che il Primo Emendamento è stato progettato per proteggere. Questa politica è incoerente e incostituzionale».

Abbiamo anche contattato James Grimmelmann, professore alla Cornell Law School e a Cornell Tech. Ci ha spiegato che «la Corte Suprema ha fortemente suggerito, nel caso Moody v. NetChoice, che la moderazione dei contenuti è protetta dal Primo Emendamento. Di conseguenza, probabilmente sarebbe incostituzionale per il governo federale punire i moderatori di contenuti negando loro la possibilità di richiedere benefici governativi».

Tuttavia, ha precisato che «il Congresso ha un’autorità quasi totale nel decidere le condizioni alle quali ai cittadini stranieri è consentito entrare e restare negli Stati Uniti. La Corte Suprema ha già confermato alcuni dinieghi di ingresso contro contestazioni basate sul Primo Emendamento, in particolare nel caso Kleindienst v. Mandel, in cui ha permesso al Dipartimento di Stato di rifiutare l’ingresso a un giornalista marxista che voleva partecipare a una conferenza».

Questo non significa che la politica delineata nel memo poggi necessariamente su basi giuridiche solide.

«Per prima cosa», ha detto Grimmelmann, «ci sono argomentazioni molto forti contro tutta questa linea di casi: permettono al governo di impegnarsi in una palese discriminazione di punti di vista per mettere alle strette i media in modi che non sarebbero mai consentiti negli Stati Uniti. Inoltre, questo memo va categoricamente oltre Mandel in modi che rendono gli effetti coercitivi – e gli effetti dannosi per gli americani che preferiscono e traggono vantaggio dalla moderazione dei contenuti – ancora più manifestamente ingiusti».

A prescindere dal fatto che le basi legali per colpire fact-checker stranieri e lavoratori della sicurezza digitale siano fragili, equiparare la moderazione dei contenuti alla censura è sia pericoloso che insensato.

Ogni servizio online in cui le persone interagiscono fra loro ha bisogno di un minimo di moderazione. Persino la mia piattaforma di scacchi open source preferita ha delle regole contro le minacce di morte. Come ha scritto Tarleton Gillespie nel suo fondamentale libro Custodians of the Internet, «la moderazione non è un aspetto ancillare di ciò che fanno le piattaforme. È essenziale, costituzionale, definitoria. Non solo le piattaforme non possono sopravvivere senza moderazione, ma senza moderazione smetterebbero di essere piattaforme».

Per provare a visualizzare come potrebbe essere una piattaforma senza alcuna forma di moderazione, aprite Firesky. Questo flusso travolgente mostra ogni singolo post e risposta pubblicati su Bluesky man mano che vengono caricati. Ora immaginate qualcosa di molto più intenso e crudo di così, e potrete farvi un’idea dell’inutilità nauseante di un web non moderato.

Le piattaforme usano il ranking e il filtraggio per fare in modo che gli utenti possano trovare le persone e i prodotti che cercano (e per vendere pubblicità). In più, queste pratiche rimuovono spam, malware, frodi, violenza grafica e altri tipi di contenuti potenzialmente dannosi.

Certo, sbagliano. In continuazione. Ma esistono regole che governano la comunicazione online così come ne esistono per gli spazi offline. Se scarabocchi oscenità su un vagone della metro e gli operai del comune le cancellano, non è “censura”. Se chi organizza un evento impedisce a un partecipante di urlare insulti razzisti a un oratore, non è “censura”. La moderazione dei contenuti non è censura. È il prezzo imperfetto – e mediato dalla tecnologia – che paghiamo per riuscire a coesistere online.

Neanche il fact-checking censura. Interventi di fact-checking come quello eliminato da Zuckerberg per compiacere Trump non erano pensati per rimuovere contenuti; aggiungevano una correzione a un’affermazione falsa. Il giudice della Corte Suprema statunitense Louis Brandeis sosteneva cento anni fa che il rimedio alla falsità «è più discorso, non il silenzio imposto». Il fact-checking è “più discorso”.

Smantellare la moderazione dei contenuti renderà gli utenti più vulnerabili a bullismo, truffe e altri danni concreti. All’inizio di quest’anno, Trump ha appoggiato a gran voce e firmato la legge bipartisan Take It Down Act, che impone alle piattaforme di rimuovere deepfake di nudi non consensuali. Quella legge impone esattamente il tipo di moderazione dei contenuti che il suo Dipartimento di Stato ora definisce censura.

La moderazione dei contenuti è politica. Dovrebbe essere sottoposta ad audit, regolamentata e trasparente. Dovrebbe essere procedimentalmente giusta. Ma attaccando le persone che rendono governabili i nostri spazi online, il governo degli Stati Uniti non sta perseguendo questi obiettivi né proteggendo la libertà di espressione.

Il divieto sui visti H-1B per i lavoratori della sicurezza digitale e i fact-checker fa parte di uno sforzo coordinato per trasformare gli spazi online in luoghi senza legge dove vince il più forte.

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