
La propaganda israeliana che punta a negare la fame di Gaza
Mentre nella Striscia di Gaza la carestia raggiunge il punto di non ritorno, la propaganda del governo israeliano insiste nel negarne la realtà
Mentre nella Striscia di Gaza la carestia raggiunge il punto di non ritorno, la propaganda del governo israeliano insiste nel negarne la realtà, appiattendosi sulla screditata teoria del complotto di Pallywood.
Il 22 agosto 2025, l’IPC, il principale osservatorio mondiale sulla fame sostenuto dalle Nazioni Unite, ha ufficialmente riconosciuto la carestia a Gaza, attribuendone la causa all’azione umana. Secondo le sue conclusioni si prevede che la situazione peggiorerà ulteriormente, con la carestia che si estenderà in altre zone della Striscia: entro la fine di settembre un terzo della popolazione affronterà condizioni di malnutrizione «catastrofiche», mentre le persone esposte all’emergenza saliranno a 1,14 milioni (il 58 per cento del totale), afferma l’IPC. L’UNICEF stima in oltre cento le vittime (l’80 per cento bambini) per malnutrizione dall’inizio della guerra, e solo nel mese di giugno sono stati oltre seimila i bambini trovati in malnutrizione acuta durante gli screening.
Dallo scorso marzo il governo israeliano ha introdotto un blocco quasi totale delle merci in ingresso a Gaza e da maggio ha militarizzato la distribuzione degli aiuti umanitari sottraendola all’ONU e affidandola alla Gaza Humanitarian Foundation (GHF), una ONG con finanziatori segreti, con il risultato di provocare ulteriori 1400 morti fra i palestinesi in cerca di cibo. In una dichiarazione il ministero degli Esteri ha contestato la veridicità del rapporto, insinuando che sia stato «fabbricato su misura per adattarsi alla falsa campagna di Hamas», e ne ha chiesto il ritiro e la revisione. «Israele non ha una politica della fame, ma una politica di prevenzione della fame», ha protestato il primo ministro Benjamin Netanyahu.
Eppure, gli stessi dati forniti da Tel Aviv confermano la versione dell’IPC e i moniti, ormai reiterati, delle organizzazioni umanitarie: fra marzo e giugno, ad esempio, le forze armate (IDF) hanno autorizzato l’accesso nella Striscia di circa 56mila tonnellate di cibo, meno di un quarto del fabbisogno minimo della popolazione.
Da mesi, in effetti, la propaganda israeliana è impegnata in una vasta opera di disinformazione per negare la carestia a Gaza, delegittimare i media che la raccontano e disumanizzare i palestinesi, ridicolizzandone le sofferenze come astute messinscene per commuovere l’opinione pubblica occidentale. È la cosiddetta “Pallywood” (combinazione di “Palestina” e “Hollywood”), una teoria del complotto, originatasi nel 2002 durante la seconda intifada, che accusa le vittime palestinesi di essere attori in un set allestito da Hamas. Il modello di riferimento è quello dei crisis actors, fortunata narrazione cospirazionista statunitense che nega la veridicità delle tragedie, a partire dalle stragi nelle scuole.
Dal novembre 2023 su X (ex Twitter) esiste un profilo – Gazawood, oltre 90mila follower nel momento in cui scriviamo – dedicato a diffondere la teoria del complotto nei suoi molteplici rivoli narrativi: morti e ferimenti nel conflitto sono simulati con l’ausilio di abili truccatori; i parenti delle vittime ostentano un dolore innaturale in scene ricostruite ad hoc; il cibo a Gaza entra in abbondanza, tanto che di continuo aprono nuovi ristoranti; i giornalisti sul posto sono organici ad Hamas e confezionano foto e video artefatti, sia allestendo appositamente il luogo delle riprese sia pubblicando immagini generate con l’intelligenza artificiale.
Le accuse di manipolazione, ricondivise anche dagli account ufficiali dei ministeri israeliani sui social network, sono state ripetutamente smontate dai fact-checker internazionali, che hanno constatato sia l’autenticità delle immagini provenienti dai giornalisti palestinesi, sia la realtà della carestia, per nulla contraddetta dalla presenza di sparute attività commerciali che riescono ancora a servire cibo. Le gravissime condizioni di malnutrizione di bambini e adulti sono state anche documentate da Haaretz, uno dei più autorevoli quotidiani israeliani, in un tour virtuale con medici americani e britannici, aggirando così il divieto di entrare nella Striscia.
Secondo un’indagine di Forbidden Stories, in collaborazione con giornalisti israeliani, dietro l’account di Gazawood si nascondono Ida Knochen, scrittore ultraortodosso di fantasy per ragazzi, e Richard Landes, il medievista americano che ha coniato il termine “Pallywood”. Landes ha inoltre rivelato il coinvolgimento dell’ex capo della divisione ricerca dell’intelligence militare israeliana, Yossi Kuperwasser, che ha tuttavia rettificato, sostenendo di essersi limitato a metterlo in contatto con altre persone. «[I palestinesi] devono controbattere in qualche modo. Non hanno armi, ma un’immagine vale più di mille proiettili», ha detto Landes a Slate. «Manipolano la compassione degli occidentali così da ottenere una gigantesca reazione rabbiosa contro Israele, forzare un cessate il fuoco e così risparmiare Hamas».
La propaganda di Pallywood non si è fermata nemmeno dopo che Donald Trump, a fine luglio, ha ammesso che a Gaza la fame «è reale» e «non si può fingere» e dopo le numerose verifiche delle più prestigiose testate mondiali. Rispetto all’inizio della guerra, i confini di Pallywood si sono estesi fino a inglobare, all’interno della cospirazione, anche i giornalisti e i media occidentali che, in piena autonomia, danno voce alle testimonianze palestinesi e che, per questo, sono accusati di essere fiancheggiatori del terrorismo.
La convalida della teoria del complotto arriva infatti dall’alto. In un’intervista del 21 agosto all’emittente statunitense OANN, Netanyahu ha annuito mentre la conduttrice Stella Escobedo presentava come reali i contenuti di Pallywood/Gazawood e ha paragonato le denunce della fame di Gaza all’antisemitismo medievale, in particolare all’accusa del sangue, l’omicidio rituale di bambini.
Nella stessa settimana in cui l’IPC divulgava il suo rapporto, la disinformazione del governo israeliano ha poi fatto un salto di qualità, organizzando l’ingresso nella Striscia di dieci influencer americani e israeliani «per rivelare la verità» sulle condizioni dei palestinesi di Gaza e – suggerisce Haaretz – per recuperare l’appoggio dei giovani elettori repubblicani, sempre più critici verso le politiche dello Stato ebraico. Nei video successivamente pubblicati sui social, gli influencer hanno ripetuto i più volte smentiti luoghi comuni della propaganda israeliana: Gaza riceve ingenti aiuti alimentari, ma Hamas li sottrae alla popolazione; è l’ONU a non distribuire il cibo e a lasciarlo intatto nei centri di raccolta; la distribuzione allestita dalla GHF è efficiente e capillare.
Tuttavia, funzionari americani e israeliani hanno confermato al New York Times che non esistono prove di sistematici furti alimentari da parte di Hamas e che l’operazione umanitaria delle Nazioni Unite era più affidabile di quella attuale. Israele, peraltro, ha posto una serie di ostacoli burocratici e fisici alla consegna degli aiuti, negando il visto al personale delle ONG, rimuovendo la scorta ai convogli e obbligandoli a sostare in interminabili posti di blocco e a percorrere le strade più battute da saccheggiatori e bande armate.
L’effetto è stato l’aumento vertiginoso dei prezzi alimentari (un chilo di patate costa 30 euro), la speculazione dilagante sulle commissioni per prelevare denaro contante (con l’arricchimento di pochi profittatori) e le sofferenze dei bambini le cui famiglie non riescono a procurarsi cibo: per quanto persino questo dato di fatto sia negato dai media israeliani filo-governativi, come Channel 14, sono proprio i bambini i primi a morire, perché hanno riserve di grasso più limitate rispetto agli adulti e perché sono i più esposti alle malattie che la fame aggrava.
Dietro la campagna degli influencer nella Striscia e dietro le restrizioni e i blocchi umanitari c’è un’unica regia: quella del ministero degli Affari della Diaspora, guidato dal giovane ministro del Likud Amichai Chikli. Fin dai primi mesi della guerra, Chikli ha coordinato un’ambiziosa strategia di disinformazione per influenzare l’opinione pubblica occidentale, da un lato per seminare fake news sui palestinesi e, dall’altro, per modificare la definizione di antisemitismo nella legislazione statunitense, indebolendo le proteste pro-Palestina nei campus. Le operazioni di disinformazione sono state così massive da indurre, lo scorso luglio, i servizi segreti interni olandesi (NCTV) a inserire Israele tra i Paesi responsabili di tentativi di manipolazione dell’opinione pubblica, insieme a Russia, Turchia e Iran.
Nel frattempo, teorie del complotto e propaganda di guerra hanno radicalizzato la società israeliana, come traspare da un sondaggio dell’Università ebraica di Gerusalemme, secondo cui il 64 per cento della popolazione è d’accordo con l’affermazione che «non ci sono innocenti a Gaza» (una stima, tuttavia, al ribasso, da ponderare con il 17 per cento di cittadini arabo-israeliani). Per Tom Divon, ricercatore specializzato in cultura digitale nell’ateneo che ha condotto la ricerca, Pallywood perpetua gli stessi meccanismi psicologici del negazionismo classico: insomma, non è tanto una teoria del complotto, quanto un automatismo difensivo per evitare di riconoscere il male inflitto dal proprio gruppo sociale. Solo disumanizzando i palestinesi e immaginando che inscenino un dolore esagerato, si riesce a ignorare la verità dei crimini di guerra perpetrati dall’esercito israeliano.
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