
Attorno alla parola “genocidio” c’è sempre stata molta conflittualità
La componente più dibattuta dell’uso del termine riguarda la sua intenzionalità
Il termine genocidio nasce in ambito giuridico, ma nel tempo si è caricato di significati politici, etici e ideologici. Oggi il suo impiego divide sulla guerra a Gaza, dove le violenze e le dichiarazioni dei leader israeliani, che stanno bombardando la Striscia dal 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco a Israele di Hamas, si intrecciano con il dibattito sull’intento genocidario. Allo stesso tempo, governi e media ne hanno spesso manipolato l’uso, come nel caso del cosiddetto “genocidio dei bianchi” in Sudafrica, o evitato la definizione per ragioni diplomatiche, come nel caso del genocidio armeno.
Cos’è un genocidio
Per quanto il termine genocidio abbia una definizione precisa nel diritto internazionale, il suo significato si è espanso in modo più ampio e meno tecnico, assumendo non solo un valore giuridico, ma anche storico, etico e politico. Il dibattito sul suo utilizzo spesso è polarizzato, inquinato dalla propaganda, e quindi risulta più complesso tracciare una linea tra ciò che corrisponde a questo termine tecnico e ciò che non lo è.
Secondo la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, firmata dalle Nazioni Unite nel 1948, il termine genocidio indica il compimento delle azioni volte a distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Ciò può avvenire attraverso l’uccisione o il danneggiamento fisico e mentale dei suoi membri, l’imposizione di condizioni di vita tali da condurre alla loro eliminazione fisica, l’impedimento delle nascite oppure la sottrazione forzata di bambine e bambini per trasferirli in un altro gruppo. Tra i genocidi storicamente riconosciuti vi sono lo sterminio dei Ovaherero e dei Nama in Namibia da parte della Germania (1904-1908), il genocidio armeno nell’Impero ottomano (1915-1916), l’Olocausto contro la popolazione ebraica in Europa (1941-1945) e il genocidio dei Tutsi in Ruanda (1994).
La componente più dibattuta dell’uso del termine non è tanto la constatazione delle violenze elencate, ma l’intenzione genocidaria. Alla luce dei fatti, come si dimostra che dietro questi atti ci sia proprio la volontà di cancellare un popolo? Questo è l’interrogativo su cui il mondo giuridico, giornalistico e politico dibattono per definire una serie di eventi un genocidio, accertarne le ragioni e le implicazioni. Il genocidio, infatti, è un crimine internazionale e il suo divieto è vincolante per tutti gli Stati, indipendentemente dal fatto che abbiano ratificato o meno la Convenzione del 1948.
Fino al 1998 erano i tribunali nazionali a stabilire se una serie di azioni potesse o meno rientrare nella definizione di genocidio, oggi a farlo è la Corte penale Internazionale. Parallelamente, dichiarazioni e risoluzioni di organismi statali o internazionale, come l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, contribuiscono a consolidare il riconoscimento pubblico e diplomatico di un genocidio, pur senza avere lo stesso valore giuridico.
L’abuso del termine genocidio
La nozione di intento genocidario deriva dall’elaborazione del giurista Raphael Lemkin nel volume “Axis Rule in Occupied Europe” (1944), su cui si basa la Convenzione ONU del 1948. L’obiettivo era quello di impedire l’uso esponenziale del termine nei tribunali e nella società civile e quindi svuotarlo di significato e di conseguenze legali. Come nel caso del cosiddetto “genocidio dei bianchi” in Sudafrica.
Il mito del genocidio dei bianchi nasce in realtà negli Stati Uniti, dove affonda le radici nella galassia suprematista. I primi riferimenti risalgono agli anni Settanta, con articoli su riviste neonaziste che accusavano le campagne di controllo delle nascite di mirare a ridurre solo la popolazione bianca. Nei decenni successivi l’ossessione per un’ipotetica scomparsa o sostituzione della “razza bianca” si consolida, finché in Sudafrica non viene costruito un caso-simbolo.
Qui gli omicidi nelle aree rurali, che colpiscono indistintamente persone bianche e nere, vengono reinterpretati come prova di un presunto piano per sterminare gli agricoltori afrikaner, cioè la minoranza bianca sudafricana che discende dai coloni olandesi. L’eco della teoria è arrivata fino dentro la Casa Bianca. Donald Trump ha rilanciato frequentemente sui social media la narrativa del white genocide in Sudafrica e parallelamente Grok, il chatbot di intelligenza artificiale di Elon Musk, ha diffuso informazioni inesatte sull’argomento su X. In realtà – come hanno mostrato indagini indipendenti e rapporti ufficiali – gli omicidi nelle fattorie rientrano nella violenza generalizzata che affligge il Paese, senza alcun intento genocidario verso un gruppo specifico.
I genocidi negati
L’adozione del termine genocidio non è mai solo giuridica, ma anche politica, e comporta ripercussioni significative: riconoscere un genocidio porta con sé pesanti conseguenze diplomatiche e militari. Per questo, in passato, la definizione è stata evitata o per quanto possibile rimandata. È il caso del genocidio armeno: per decenni molti Stati hanno scelto di non definirlo come tale, nonostante l’evidenza storica, per non incrinare i rapporti diplomatici ed economici con la Turchia.
Il genocidio armeno avvenne tra il 1915 e il 1923, quando il governo dei Giovani Turchi decise di eliminare la presenza armena dall’Anatolia. Le marce della morte e le condizioni disumane portarono alla morte di circa un milione e mezzo di persone, pari a due terzi della comunità armena dell’impero. Oltre alle uccisioni, furono confiscati i beni e forzatamente convertiti alla fede islamica i bambini. Con la fondazione della Repubblica turca, il generale Mustafa Kemal, detto Atatürk cioè Padre dei Turchi, completò l’opera di espulsione e negazione, tentando di occultare il genocidio e impedendo ogni forma di risarcimento.
Solo in tempi recenti il genocidio armeno ha ottenuto un riconoscimento formale da parte di diversi Stati. Negli Stati Uniti è stato il presidente Joe Biden nel 2021 a definire apertamente genocidio le deportazioni e i massacri del popolo armeno. Una scelta maturata dopo decenni di pressioni da parte delle comunità della diaspora e delle organizzazioni per i diritti umani. Nel 2019 una risoluzione della Camera dei Deputati italiana aveva chiesto al governo di riconoscere ufficialmente il genocidio armeno.
Diverso è invece il caso degli uiguri, minoranza musulmana turcofona che vive nello Xinjiang, nel nord-ovest della Cina, oggetto di una campagna di internamento e repressione da parte del governo cinese. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2018, oltre un milione di persone sarebbero state rinchiuse in strutture che Pechino definisce centri di formazione professionale, ma che di fatto funzionano come luoghi di detenzione e lavoro forzato, con l’obiettivo di snaturare l’identità culturale e religiosa della comunità. Le indagini documentano anche un sistema di controllo delle nascite che comprende sterilizzazioni forzate, aborti imposti e l’uso obbligatorio di dispositivi contraccettivi.
Di fronte a queste violazioni, il Parlamento europeo ha affermato già nel 2020 l’eventualità di essere di fronte a un genocidio. Di seguito, USA, Regno Unito e Canada hanno accusato ufficialmente la Cina di genocidio, imponendo sanzioni coordinate. La Cina ha respinto tutte le accuse, definendole bugie. Nel 2022 l’ONU ha pubblicato un rapporto che, sulla base di documenti ufficiali e delle testimonianze di ex detenuti, conferma gravi violazioni dei diritti umani, come la detenzione arbitraria diffusa e pratiche riconducibili a crimini contro l’umanità. Tuttavia, pur evidenziando la gravità della situazione, il documento non ha utilizzato il termine “genocidio”, che resta quindi oggetto di disputa sul piano giuridico e politico.
Negli ultimi anni si è registrata inoltre un’ondata crescente di negazionismo rispetto ai genocidi già storicamente accertati. Secondo una rilevazione Eurispes pubblicata nel 2024, il 14,1 per cento degli italiani ritiene che la Shoah non sia mai avvenuta, mentre il 15,9 per cento pensa che le vittime siano state molte meno di quanto sostenuto. Si tratta di percentuali in crescita rispetto al 2020, quando i negazionisti erano il 15,6 per cento, e soprattutto rispetto al 2004, quando erano il 2,7 per cento. Inoltre sminuiva la portata della tragedia dell’Olocausto il 16,1 per cento degli intervistati nel 2020 e l’11,1 per cento nel 2004.
A Gaza è in corso un genocidio?
Secondo il ministero della Salute palestinese, gestito da Hamas, sono più di 62mila le vittime dei bombardamenti israeliani degli ultimi due anni. Diverse fonti indipendenti, però, indicano che questi dati sono sottostimati e il conteggio delle vittime per morte violenta e non violenta può essere più ampio, fino a 80mila. Come valutato dal Centro satellitare delle Nazioni Unite, quasi l’80 per cento degli edifici a Gaza è stato raso al suolo e la distruzione di attrezzature di sollevamento ha ostacolato la ricerca di migliaia di persone sepolte sotto le macerie. A Gaza è inoltre in corso una grave carestia, accertata dalla Integrated Food Security Phase Classification (IPC), uno strumento elaborato da 21 organizzazioni tra cui le Nazioni Unite e ONG internazionali.
Questi dati corrispondono ai primi tre indicatori della definizione di genocidio secondo la Convenzione del 1948. Inoltre l’ente delle Nazioni Unite OHCHR (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani) ha associato all’ultimo punto gli attacchi alle strutture sanitarie riproduttive, ai reparti di maternità e alla principale clinica per la fertilità in vitro di Gaza.
Resta da dimostrare se Israele agisca con intenti genocidari per distruggere la popolazione palestinese. Il metodo tradizionale richiede il ritrovamento di documenti e prove in cui ci sia traccia di un piano di sterminio. È il caso del genocidio avvenuto in Ruanda nel 1994 e che ha portato a 800mila vittime. La propaganda si è dipanata tramite i giornali e la radio così da diffondere fake news e ostilità nei confronti della popolazione Tutsi, ma a mettere nero su bianco l’intento genocidario fu la Definizione e identificazione del nemico, il documento frutto del confronto tra il generale Juvénal Habyarimana e una commissione di alti ufficiali.
Lo stesso avvenne con l’Olocausto durante il nazifascismo. Le prove documentali raccolte dopo i fatti rendono inattacabile l’accusa di genocidio. Nel caso del massacro di Srebrenica – che portò alla morte di 8mila ragazzi e uomini bosgnacchi – l’accusa di genocidio venne però formulata anche in assenza di una chiara pianificazione documentata. Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dedusse l’intento genocidario dalla gravità e dallo svolgimento degli eventi e dalle dichiarazioni pubbliche dei responsabili.
Nel caso di Gaza, le affermazioni pubbliche dei membri del governo israeliano sono d’impatto. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha dichiarato che «Gaza sarà completamente distrutta» grazie agli interventi israeliani. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha usato le parole: «Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza». Il presidente israeliano Isaac Herzog ha affermato: «Combatteremo e gli spezzeremo la spina dorsale». Poco dopo l’attacco del 7 ottobre condotto da Hamas, invece, il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva esortato le truppe di terra che stavano per entrare a Gaza a «ricordare ciò che Amalek vi ha fatto», facendo riferimento a un antico nemico degli israeliti, contro il quale la tradizione ebraica impone una guerra senza esclusione di colpi.
Il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato agli abitanti di Gaza: «Questo è l’ultimo avvertimento. […] Restituite tutti gli ostaggi e rimuovete Hamas, e vi saranno presentate altre opzioni, tra cui il trasferimento in altre parti del mondo per chi lo desidera. L’alternativa è la distruzione e la devastazione totali». Secondo gli esperti di diritto Julian Fernandez e Olivier de Frouville questo messaggio esprime l’intento genocidario di Israele. «Ci sono pochi casi così chiari come questo. Di solito l’intento genocida viene nascosto o minimizzato» afferma Rafaëlle Maison, docente dell’Università Paris-Saclay. Inoltre secondo la giurista Paola Gaeta, docente al Graduate Institute di Ginevra, «Israele non può non sapere che a causa del modo in cui sta conducendo questa guerra non sarà più possibile una vita palestinese a Gaza».
Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, nel suo rapporto “Anatomy of a Genocide”, conclude che «la natura schiacciante e la portata dell’attacco israeliano a Gaza e le condizioni di vita distruttive che ha inflitto rivelano l’intento di distruggere fisicamente i palestinesi come gruppo. […] Gli atti di genocidio sono stati approvati e hanno avuto effetto a seguito di dichiarazioni di intenti genocidi emesse da alti funzionari militari e governativi».
Il 31 agosto l’Associazione internazionale degli studiosi del genocidio (IAGS) ha approvato una risoluzione secondo cui le azioni dell’attuale governo Netanyahu rispondono ai criteri legali per essere descritte come genocidio. Israele ha poi respinto le conclusioni dell’IAGS, sostenendo che la risoluzione si basa su «menzogne di Hamas» e su ricerche inadeguate. Il ministero degli Esteri ha definito il documento «un imbarazzo per la professione legale» e un portavoce ha dichiarato che è Israele ad essere vittima di un genocidio.
Ad oggi non c’è comunque accordo nel riconoscimento di un intento genocidario dietro le violenze in corso a Gaza dal punto di vista giuridico. Ad esempio Muriel Ubéda-Saillard, docente di diritto pubblico all’Università di Lille, ha sottolineato che «le violazioni in questione devono essere attribuibili esclusivamente alle autorità israeliane e non alle azioni di Hamas».
Inoltre Yann Jurovics, docente dell’Università Paris-Saclay ed esperto di diritto per i Tribunali penali internazionali per l’ex Jugoslavia e il Ruanda, sottolinea che «la parola “genocidio” è spesso oggetto di manipolazione politica e vittimistica, come se si trattasse di affermare una qualità della sofferenza, mentre il diritto internazionale non fa distinzioni nella gravità dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e del crimine di genocidio». Per questo pone degli interrogativi: «Le dichiarazioni rilasciate da membri del governo israeliano impegnano lo Stato? Sono inviti al genocidio? Hanno dato luogo a ordini? È possibile stabilire un collegamento tra le dichiarazioni e le azioni compiute sul campo?».
Anche Giorgio Sacerdoti, docente dell’università Bocconi di Milano ed esponente della comunità ebraica italiana, mette in dubbio il legame tra le dichiarazioni dei politici israeliani e l’ideazione di un piano di sterminio. L’intento genocidario non sarebbe deducibile e questo non sarebbe nemmeno la causa delle condizioni di vita disastrose a Gaza, provocate invece dal mero conflitto militare.
Attualmente la Corte Internazionale di Giustizia sta esaminando un caso presentato nel 2023 dal Sudafrica che accusa Israele di genocidio. La Corte non si è ancora pronunciata in merito e Israele ha tempo fino a gennaio 2026 per presentare la propria difesa.
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