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Il caso degli influencer americani pagati segretamente per parlar bene del Partito Democratico

Considerando il poco impegno sui social del Partito Democratico, un hub liberale sta ingaggiando content creator con procedure dubbie

3 settembre 2025
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Decine di influencer americani sarebbero stati ingaggiati segretamente da un potente gruppo liberal per diffondere messaggi progressisti e a favore del Partito Democratico. La storia è stata rivelata da un’inchiesta su Wired firmata dalla giornalista Taylor Lorenz e chiama in causa Chorus, un’organizzazione senza scopo di lucro fondata per facilitare i contatti tra legislatori democratici e influencer, e The Sixteen Thirty Fund, uno dei più grandi centri di finanziamento della sinistra statunitense fondato nel 2009 per rispondere ai gruppi conservatori che finanziano i repubblicani. 

In questi anni, come hanno dimostrato diverse testate, il gruppo ha finanziato con milioni di dollari diverse cause per promuovere politiche e tematiche care alla sinistra, come la lotta al cambiamento climatico e il diritto all’aborto. Nel 2020, ad esempio, ha impegnato più di 400 milioni di dollari negli «sforzi volti a destituire il presidente USA Donald Trump e la maggioranza repubblicana al Senato», scrive Politico. Tre anni fa, invece, ha speso 196 milioni di dollari per sostenere le misure elettorali statali sul diritto all’aborto in vista delle elezioni di medio termine. 

Considerando che Sixteen Thirty Fund è una non profit, non è tenuta a rivelare i propri donatori e dunque non è possibile sapere con esattezza da dove provengano tali finanziamenti. Una sfumatura che ammanta l’intera vicenda di un ulteriore velo di segretezza. Stando all’ultima dichiarazione dei redditi disponibile, visionata da Politico, la quasi totalità delle entrate arriva soltanto da quattro donatori: il più generoso ha donato al gruppo 50,5 milioni di dollari, mentre gli altri hanno donato rispettivamente 31,4 milioni, 21,8 milioni e 13,6 milioni di dollari.

Tra contenuti pro-dem e contratti stringenti

In questo caso The Sixteen Thirty Fund ha finanziato un programma per coinvolgere direttamente dei content creator, il Chorus Creator Incubator. L’obiettivo finale rimane sempre lo stesso: supportare cause e diffondere messaggi politici liberal. 

Stando a quanto riportato nell’inchiesta di Wired, tra gli influencer ingaggiati nel programma ci sono volti noti negli USA come Olivia Julianna, che ha parlato alla Convention nazionale democratica del 2024; Loren Piretra, conduttrice dello show “Occupy Democrats” che si oppone a Donald Trump; Barrett Adair, che gestisce una pagina di meme a favore del Comitato nazionale democratico; Suzanne Lambert, che si definisce una “Regina George liberale” (il riferimento è alla protagonista del film cult “Mean girls”, ndr); David Pakman, che conduce un programma progressista di attualità e politica su YouTube; Leigh McGowan, che si fa chiamare “la ragazza della politica”.

Secondo quanto raccontato da Wired, Chorus ha iniziato a contattare diversi influencer di sinistra nella scorsa primavera, proponendo loro l’opportunità di un finanziamento da parte del Sixteen Thirty Fund tramite un loro programma per aiutare i content creator a «espandere la loro portata e il loro impatto».

Per partecipare a questo programma e generare contenuti, gli influencer con più visibilità del programma e che hanno accettato il contratto sono stati pagati 8mila dollari al mese. Una somma che però non è stata offerta a tutti. Un content creator anonimo, che ha poi rifiutato le condizioni del contratto, ha dichiarato alla giornalista di Wired di aver ricevuto un’offerta economica di 250 dollari al mese. Testimonianze che cozzano con quanto riportato sul sito del programma di Chorus: «Non paghiamo i creatori per produrre contenuti, ma offriamo loro uno spazio per imparare a comunicare in modo efficace e far crescere le loro piattaforme».

Diversi creator contatti inizialmente da Chorus hanno espresso preoccupazione – in una chat con altri influencer del programma – per alcune clausole del contratto. In questi, visionati da Wired, era presente una clausola secondo cui i firmatari non potessero rivelare il loro rapporto con Chorus o il Sixteen Thirty Fund, e nemmeno il fatto di essere stati pagati, pena l’esclusione dal programma. Tra le varie clausole, sempre secondo Wired, c’erano anche restrizioni sul tipo di contenuti politici che i creatori potevano produrre.

Pari, influencer che si occupa dei diritti riproduttivi nel duo TikTok “Women in America” e parte del programma di Chorus, ha risposto pubblicamente a quanto emerso nell’inchiesta di Wired spiegando di non essere mai stata pagata, motivo per cui non avrebbe senso nascondere la collaborazione, e che Chorus non ha mai dettato quali contenuti potessero essere pubblicati e quali no.

Nella chat degli influencer del programma di Chorus – visionata dalla giornalista – Pari avrebbe fatto sapere di aver chiesto alcune modifiche alle condizioni presenti nel contratto con Chorus, ma si diceva scettica sulla possibiltà che tali cambiamenti fossero realmente stati implementati.

Il problema di Chorus e dei Dem con gli influencer

Negli scorsi mesi altri influencer dem hanno sollevato critiche contro Chorus. Lo scorso marzo, ad esempio, riporta sempre Taylor Lorenz, l’organizzazione aveva portato alcuni content creator al discorso del presidente Donald Trump davanti al Congresso per far sì che questi producessero contenuti a favore del Partito Democratico. Chorus, però, non aveva organizzato alcuna intervista per gli influencer invitati, a eccezione del suo co-fondatore Brian Tyler Cohen.

Gli influencer sono riusciti a ottenere delle interviste con i politici democratici e realizzare dei contenuti solo dopo aver unito le loro forze e senza alcun sostegno (escluse le spese di viaggio) da Chorus.

Quello tra i Democratici e gli influencer è in ogni caso un rapporto conflittuale. Se i repubblicani sono riusciti fin da subito a creare un ecosistema ben finanziato di influencer, conduttori di podcast e altre personalità online che hanno amplificato e diffuso con successo contenuti a loro favore, portando voti al presidente Trump per la sua rielezione, i democratici hanno fatto sempre molto fatica in questo settore. 

Il primo motivo, nonché il principale, è che hanno compreso con molto ritardo il loro potenziale. Il cofondatore di Chorus, Brian Tyler Cohen, aveva raccontato al New York Times di aver creato l’hub perché «il Partito Democratico è stato molto lento nell’adattarsi all’ambiente mediatico in cui ci troviamo attualmente». Anche Stuart Perelmuter, CEO dell’agenzia di comunicazione Good Influence a cui si è affidata Kamala Harris per l’elezione presidenziale del 2025, è dell’idea che l’ala democratica «ha sempre trattato i creatori che non fanno parte dei media tradizionali come lavoratori precari, mentre i repubblicani investono in questo settore da anni».

Sentito da Lorenz, Keith Edwards, uno youtuber dem, ha commentato spiegando che «i democratici finalmente hanno capito che Internet esiste, e questo è positivo». Il problema, prosegue Edwards, è che «continuano a pensare che gli influencer servano solo a fare terribili interviste davanti alle telecamere che nessuno guarda, invece di considerarci semplicemente come un’altra forma di media».

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